Un giorno in pretura

Ciao, fratello. Scusa se non ti chiedo come stai, ché sebbene stia qui a scriverti, lo so che non stai più. So dove stai, questo lo so: stai in un loculo nel cimitero di Riposto, ché invece di curarti t’hanno lasciato morire. Omicidio colposo. E stai qui, a casa, dove quasi tre anni dopo tutto parla di te. Come se il tempo si fosse congelato, quel 18 maggio. Dalla parete, mi guardi con quel sorriso appena abbozzato che non ti mancava mai, malgrado le mazzate della vita, abbracciato alla statua di cera di Tina Turner, lì, su una parete della tua stanza che ora è la mia, ma che è rimasta come prima. Sulu cu ‘n pugnu di mmarazzi supecchiu.

Dovrei aggiornarti su come sta andando il processo. L’ultima volta che t’ho scritto, quasi un anno fa, t’avevo detto che sarebbe iniziato l’11 giugno 2018, il giorno del compleanno della mamma, ma poi mancava il giudice e l’hanno rinviato al 18 febbraio 2019, due giorni fa, trentatré mesi dopo la tua morte, ma anche stavolta mancava il giudice. E pure il cancelliere. E hanno rinviato al prossimo 21 ottobre. Perché il nostro avvocato ha insistito, ché la data proposta dalla giudice onoraria (got) addetta ai rinvii – ché questo faceva, rinviava – era il 20 gennaio 2020. Forse era una data simbolica e avremmo potuto tirare le frecce alla dottoressa e a quelli dell’Asp, senza incorrere nei rigori della legge, ma è stato meglio anticipare, anche se la got, stizzita, ci ha quasi augurato che manchi ancora il giudice. Già, perché devi sapere, Nino mio, che il giudice di ‘sto processo non c’è, arriverà dopo l’estate, al Consiglio superiore della magistratura (Csm) piacendo.

Devi sapere che lo stato della giustizia, a queste latitudini, non è dissimile da quello del sistema sanitario, di cui non c’è bisogno che ti dica, visto che t’ha ammazzato. Ma la giustizia – lo so, hai conosciuto anche quella e sai come funziona, ma lascia che ti racconti la nostra mattinata in pretura, – la giustizia per i poveri cristi, a queste latitudini, ha organici ridotti, locali angusti e non climatizzati e attrezzature sfasciate.

Sì, fratello, lo so che le preture non esistono più, ma eravamo proprio nel palazzo della «nuova pretura» di via Crispi, come la chiamavamo una volta. Minchia, quanto ho scritto su ‘sto palazzaccio, negli anni andati. La prima volta che mi capitò, fu a partire dalle condizioni di lavoro di una donna, un’impiegata amministrativa del tribunale che aveva come ufficio una specie di loculo nel piano interrato: una stanza angusta, umida, dove non entrava mai la luce del sole. Una stanza che, a norma di legge, non avrebbe potuta essere utilizzata come ufficio. E quello era un posto in cui le legge avrebbe dovuto essere una sorta di bibbia laica. Era una donna piccola, minuta e aveva il nostro stesso cognome, Gulisano. Ma non siamo parenti. Non ci conoscevano e, dopo, ci siamo pure persi di vista.

Si rivolse al giudice, la signora Gulisano, affinché sancisse, a norma di legge, che lei non poteva continuare a rovinarsi la salute in quel loculo. Però il giudice al quale lei, operatrice del sistema giudiziario italiano, si era rivolta le spiegò, in sentenza, che quella legge, benedetta figliola, non vale per gli uffici pubblici, quindi abbassa la cresta e torna nel loculo senza tante storie. Quella donna, però, non era una che abbassava la testa – sarà stato per via del cognome, chissà – e invece di tacere cercò dei giornalisti disposti a raccontare la sua storia, la storia di quella sentenza che definire stravagante è un eufemismo. Per certi versi, quella storia era la storia della pretura. Anzi della «nuova pretura». E dell’indicibile legame tra taluni affaristi e talaltri magistrati.

Era il 1979 e, una notte d’estate, le ruspe di un potente costruttore catanese demolirono una villetta liberty su cui la soprintendenza aveva dimenticato di apporre il vincolo. Sbadataggine. La mattina successiva, se ne accorse un pretore, che lesto tuonò: «Fermate le ruspe!» Le ruspe si fermarono, ma la villa liberty non c’era già più. Insomma, il pretore fu lesto ma non troppo, ché il giorno prima, né lui né i suoi colleghi del tribunale di piazza Verga, ben visibile a trecento metri di distanza, si erano accorti dei preparativi. Così come non se n’erano accorti tanti altri (chessò: i carabinieri, ad esempio, che avevano il comando là di fronte, sempre in piazza Verga) che avrebbero potuto e dovuto evitare lo scempio. Il soprintendente alle belle arti si svegliò di soprassalto dal lungo sonno e minacciò di apporre i vincoli alle macerie. Per farla breve, successe il putiferio: tutti a gridare allo sfregio, allo scandalo, all’oltraggio; tutti – quelli che sarebbero dovuti intervenire prima – a strapparsi le vesti e a invocare «giustizia!». E giustizia fu. Anzi, un intero palazzo di giustizia! Sì, ché il costruttore aveva acquistato (a quattro soldi) e demolito quella villa perché aveva già il contratto per costruire la «nuova pretura».

Solo uno non stette lì con gli strepiti di rito, si chiamava Giuseppe D’Urso, Pippo per gli amici, era ingegnere, docente di urbanistica e presidente della sezione siciliana dell’Inu, l’Istituto nazionale di urbanistica. Per me, era il professore D’Urso. Era un rompicoglioni, il professore. Hai presente me? Beh, moltiplica per dieci e grossomodo inquadri quanto fosse rompicoglioni. E siccome era un rompicoglioni, D’Urso prese carta e penna e scrisse un circostanziato esposto sulle inconfessabili commistioni fra il costruttore e alcuni magistrati e lo inviò al Csm. Che, ovviamente, non fece nulla. Però, siccome D’Urso era un rompicoglioni, ogni mese gli scriveva un telegramma di sollecitazione. E continuò per oltre due anni, fino a quando il ministro della Giustizia dell’epoca, quel galantuomo di Mino Martinazzoli, non mandò i suoi ispettori a piazza Verga e ci fu il terremoto. Di quelli forti, che fanno spagnare ma non lasciano morti sul terreno: qualcuno dovette precipitosamente cambiare palazzo di giustizia, prima che il Csm fosse costretto a intervenire con trasferimenti inevitabili, ma poi le cose tornarono come prima e vissero tutti felici e contenti. Tranne Martinazzoli, che appena cascò il governo si ritrovò senza ministero. Cose che capitano a chi guarda dove non avrebbe dovuto. La storia della signora Gulisano doveva finire com’è finita, ché un esito diverso avrebbe rischiato di riportare all’attenzione – con una sentenza, non con un articolo giornalistico – il modo in cui è stata costruita la «nuova pretura» e gli intrallazzi che ne avevano consentito l’edificazione e la vendita al ministero della Giustizia.

Il professore D’Urso, dal canto suo, continuò a fare il rompicoglioni. Anche quando, in seguito alla malattia che se lo mangiava da dentro, finì sulla sedia a rotelle e poi sul lettino di una clinica, dove la mattina continuava a tenere lezioni ai suoi studenti e il pomeriggio “addestrava” me e altri al duro mestiere di rompicoglioni. Il professore D’Urso è una persona alla quale devo una parte importante della mia formazione: sono stato suo allievo, pur non frequentando la sua aula universitaria. Quando, nel ’95, è morto, tutti i grandi delinquenti di Catania hanno tirato un grosso sospiro di sollievo. Qualcuno di questi volle toccare con mano che fosse davvero schiattato e venne al funerale, per essere certo di non ritrovarselo più in mezzo alle scatole.

Sai, caro Nino, quanto sia sempre stato allergico a chiese e parrini, ma quella volta andai a porgere l’ultimo saluto al professore. Non l’avessi mai fatto: all’improvviso mi accorsi di avere alla mia destra un architetto che avevo sputtanato anni prima, in un’inchiesta che fece un sacco di scruscio a livello nazionale, su un altro appalto dello stesso costruttore della pretura; alla mia sinistra c’era il fratello di un altro costruttore, uno che secondo Nino Calderone era affiliato a Cosa Nostra, cioè uno che era passato per il rito d’iniziazione della punciuta con la spina di limone e la santina che brucia tra le mani fino a spegnersi. Roba da film e da buzzurri, insomma. Mi sentii in trappola. Pensai al momento il cui il parrino avrebbe scandito la rituale frase: «Scambiatevi il segno della pace». Sussultai. Mi alzai di scatto, chiesi permesso e uscii a fumare. Sono certo che il professore D’Urso m’ha compreso e scusato.

Quanti cosi ca ti staju contannu, frati miu, ora ca non ci si cchiù. Che noi mica parlavamo tanto: ci capivamo con uno sguardo, ci abbracciavamo quando serviva a uno dei due o a tutt’e due. C’eravamo. Ci volevamo bene. Ma di parole, poche assai. E ci voleva ‘sta pretura che non è più pretura per farmi rompere gli argini. C’è voluto quest’altro rinvio dell’udienza a fine anno, dopo una mattinata di rinvii di altri procedimenti, tutti provenienti dal giudice dell’udienza preliminare, tutti in attesa del dibattimento. Tutti con parti civili costituite e presenti. Tutti rinviati. Dal 21 ottobre 2019 (il nostro e, prima, un altro paio) alla fine del 2021. Tempi enormi, dilatati, infiniti. Tempi in cui le persone sono solo elementi di un numero, quello del processo che li riguarda, quello della loro ansia di giustizia. Del loro diritto alla giustizia. Numeri, cifre, date, non persone. Meno che mai cittadini con dei diritti. Diritti rinviati ad altra data.

Tre procedimenti m’hanno colpito, l’altro ieri mattina, oltre al fatto che la carenza d’organico dei togati ci ha privato di un giudice, che dovrebbe arrivare dopo l’estate, e che la carenza di cancellieri ha impedito che la giudice onoraria potesse averne uno e, quindi, potesse tenere udienze e fare avanzare procedimenti ancora fermi sulla linea di partenza. Il primo e il secondo hanno a che fare con due rinvii, due storie di segno opposto di cui nulla so. La got chiama il primo per rinviarlo all’inizio del 2020 e si sente una voce: «Signor giudice, la prescrizione…». Lei alza gli occhi dal fascicolo, guarda in direzione della voce, una parte civile, poi li riabbassa sul fascicolo e osserva: «Ah! Sono fatti del 2010». Dieci anni e stai ancora sulla linea di partenza, da dove probabilmente non avanzerai, perché la prescrizione consegnerà quella pratica ad archivi polverosi. L’altro procedimento che m’è rimasto impresso, nei suoi elementi essenziali, riguarda una coppia di mezz’età: nel febbraio del 2012 lei ha denunciato lui (ignoro i motivi, ma non devono essere difficili da immaginare), nel settembre dello stesso anno i due si sono riappacificati e sono tornati insieme. Sette anni dopo, quel procedimento non si è ancora estinto, non c’è stato un giudice che ne sancisse l’inutilità e lo espungesse da questo fiume carsico che intasa e allunga i tempi della giustizia: rinvio a novembre 2019.

La sequela di rinvii, a un certo punto, è stata interrotta dalla necessità di una convalida di fermo. Accusa e difesa espongono le rispettive ragioni e, dopo, la giudice deve ritirarsi a scrivere la sentenza: «Vi chiedo scusa, vi chiedo di pazientare, ma il computer nell’altra stanza non funziona e per scrivere la sentenza devo andare in piazza Verga. Torno fra mezzora». Certo, solo mezzora. Una delle tante mezzore di un sistema giustizia in cui le persone sono solo numeri su un registro che si riempie senza mai svuotarsi, mentre il diritto dei cittadini ad avere verità e giustizia diventa sempre più un postulato del vivere civile talmente usurato da apparire illusione. Una chimera.

E t’ho raccontato anche questa, Nino mio.

T’abbraccio,

Sebastiano

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